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Re: Recensioni dei libri
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POVERA GENTE --- di Fëdor Dostoevskij

Di solito gli scrittori di fama internazionale hanno esordito con romanzi di buona fattura, dotati di una discreta originalità e già in grado di offrire un saggio dell’eccezionale talento del proprio autore. Fëdor Dostoevskij non fu da meno e l’eccezionalità del suo primo lavoro, Povera gente, risiede nella calorosa accoglienza riservatagli dalla critica. Era il 1846, lo scrittore aveva venticinque anni ed aveva appena dato le dimissioni dal corpo civile degli ingegneri, nel quale era entrato dopo gli studi universitari. Non sapeva neppure lui con quali prospettive aveva abbandonato il servizio.

La carriera letteraria di Dostoevskij prese il via da un romanzo epistolare della lunghezza di Eugenie Grandet di Balzac, che egli stesso aveva tradotto in russo poco prima di iniziare la stesura. Attraverso uno scambio di missive si delinea una commovente storia d’amore, dove l’anziano impiegato Makàr Alekséevič Dèvuškin e la giovane sartina Varvara Alekséevna Dobrosèlova si sostengono a vicenda nella tragiche ristrettezze della vita. Entrambi faticano a sbarcare il lunario, soffrono il freddo e le privazioni, si ammalano, lavorano duro, cadono in crisi depressive e non riescono ad uscire dalla costante situazione di emergenza. L’affetto che provano l’uno per l’altra è manifestato prevalentemente con servizi, doni e gentilezze; questo scambio, pur nella sua intrinseca materialità, è caratterizzato da un’eccezionale purezza e dono di sé. Proprio quando un colpo di fortuna permette a Makàr di risollevarsi dal baratro, Varvara Alekséevna riceve una proposta di matrimonio dal possidente Bykov, in cerca di una moglie al solo scopo di avere dei figli legittimi cui lasciare il patrimonio. Con la prospettiva di una vita infelice ma senza le ristrettezze della miseria, Varvara accetta con gran dolore di Makàr.

Il critico Belinskij s’innamorò a tal punto dell’opera prima di Dostoevskij che solo dopo molti anni riuscì ad accettare l’evoluzione seguita dallo stile dello scrittore fin dal secondo lavoro, Il sosia. In quest’opera si respira aria di Romanticismo, ma non è così semplice da catalogare. Per Povera gente fu necessario coniare la definizione di “naturalismo sentimentale”: Dostoevskij ha tracciato un quadro fedele e ricchissimo della vita quotidiana delle classi basse di Pietroburgo, accompagnando la narrazione di eventi piuttosto tristi con un’accurata descrizione di ambienti e persone davvero misere; questo è naturalismo, ma Dostoevskij dimostra fin da subito la sua attenzione psicologica verso l’animo umano, verso i sentimenti feriti dell’uomo la cui dignità è calpestata. In questo sta l’originalità di questo scritto e la ragione dell’immediato interesse di un personaggio illustre come Belinskij.

La struttura epistolare mi ha sempre affascinato, perché trovo difficile raccontare una storia coesa tramite una serie di lettere, trovando anche il tempo per soffermarsi su ambienti e personalità. Oggi non si è più avvezzi a tenere corrispondenze così lunghe e pare insolito che i protagonisti si scrivono lettere pur essendo dirimpettai, tuttavia lo scambio tra Makàr e Varvara è del tutto naturale e credibile nel secolo XIX. Dostoevskij è attento a dare a ciascun personaggio il suo stile personale e non lascia trasparire alcuna ingenuità da scrittore in erba.

Povera gente non raggiunge la profondità di pensiero della successiva produzione dell’autore, eppure risulta accessibile nella sua brevità (133 pagine) e riesce a toccare con le sue immagini patetiche ed estremamente radicate nella realtà sociale del tempo. Non si tratta del libro più coinvolgente di Dostoevskij, però appartiene a quella cinquina di titoli indispensabili per comprendere l’importanza del suo ruolo letterario, oltre ad essere un buon punto di partenza per chi non desidera affrontare testi più corposi e complessi.

Inviato il: 6/11/2008 21:27
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Re: Recensioni dei libri
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IL GIOCATORE --- di Fëdor Dostoevskij

Fëdor Dostoevskij fu per molti anni della sua vita un accanito giocatore d’azzardo. Per lungo tempo portò avanti questa passione così simile al vizio, nonostante la fortuna non gli arridesse mai e gli negasse la liberazione dai problemi di natura economica. L’esperienza personale dell’autore si riversa in tutta la sua autenticità nel breve racconto Il giocatore, scritto in meno di un mese per ottemperare agli obblighi editoriali e, inevitabilmente, per permettere allo scrittore di sbarcare il lunario nel difficile autunno del 1866.

157 pagine non sono poi molte e non c’è spazio per grandi divagazioni. Il tema principale è il gioco e a tal proposito Il giocatore è ambientato in un’immaginaria località termale tedesca, dal nome piuttosto evocativo: Roulettenburg. Aleksej Ivanovič è un precettore russo alloggiato presso la famiglia di un generale tedesco, senza grandi speranze di crescita sociale ed intellettuale; egli vede nella roulette l’unico mezzo per rinascere. La scena della località termale viene vivacizzata dall’inaspettato arrivo di una vecchia contessa, parente del generale e alla cui eredità fanno la corte molti personaggi ambigui, come i francesi De Grieux e M.lle Blanche. In breve tempo la “nonnina” si lascia prendere dalla smania del gioco e dilapida un sacco di quattrini. Viste svanire le ambite ricchezze, De Grieux taglia la corda ed esige dal generale il risarcimento di vari prestiti; la figliastra del generale, Polina Alexandrovna, chiede l’aiuto di Aleksej, che è perdutamente innamorato di lei. Egli tenta il tutto e per tutto al casinò e, curiosamente, viene baciato dalla fortuna ed accumula una somma considerevole. Polina è disgustata dal denaro e dal fatto che gli uomini la vogliano “comprare”, così rifiuta i soldi di Aleksej e si allontana assieme all’inglese Mr. Astley. Il precettore, in preda al rammarico, si fa accalappiare da M.lle Blanche che in pochi mesi riesce a sperperare l’ingente patrimonio. Aleksej Ivanovič è di nuovo povero ed in cerca di riscatto come all’inizio della storia.

Il libro si legge tutto d’un fiato, perché a differenza di altre opere di Dostoevskij l’azione prevale nettamente sul pensiero. Non ci sono monologhi interiori, solo dialoghi e resoconti il cui ritmo è piuttosto concitato. L’io narrante non si concede troppi giudizi e riflessioni, ma si limita a subire le circostanze ed a farsi trascinare, in un turbine di eventi che non porta da nessuna parte. Tutto questo per dimostrare che il gioco d’azzardo è una specie di anticamera dell’inferno, una passione malefica che induce stimoli incontrollabili e convinzioni discutibili, senza speranza di salvezza finale. La prospettiva in cui viene posto il lettore è privilegiata, perché l’autore si premura di trasmettere adeguatamente i pensieri tipici del giocatore, le sue illusioni, le sue speranze e la sostanziale inutilità della vincita tanto agognata.

La componente autobiografica è essenziale nella costruzione di questo romanzo, che sembra nato più dall’esigenza interiore di raccontare che dalle pressanti condizioni in cui è stato concepito. Naturalmente ci sono degli errori, qualche mancanza di continuità ed alcune incoerenze dovute alla scarsa revisione della bozza, tuttavia queste restano argomento di discussione per i critici ed il lettore farà fatica a notarle. Ciò che si percepisce è la padronanza dell’argomento e il desiderio di dare un allarme, non solo riguardo al gioco d’azzardo ma anche nei confronti della sete di supremazia, del desiderio di prevalere sugli altri all’improvviso, senza meriti particolari. Aleksej Ivanovič è un russo che vuole soggiogare l’Europa, ma diffida delle proprie origini e tende a disprezzare le maniere dei suoi avversari. Egli fallirà, come fallirà Raskolnikov nella sua ricerca di riscatto attraverso l’omicidio (Delitto e castigo). Dostoevskij non ha ancora maturato una proposta concreta per rivitalizzare lo spirito russo, ma con Il giocatore è riuscito, in poco tempo, a segnare un passo avanti nella sua analisi sociale. Dato lo sforzo minimo richiesto dalla lettura, è un buon romanzo per accostarsi all’autore e alle sue problematiche.

Inviato il: 18/11/2008 19:41

Ultima modifica di Gurgaz il 18/11/2008 20:19:31
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Re: Recensioni dei libri
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MISSIONE DISPERATA --- di Steve Jackson

Steve Jackson è uno dei più amati autori di libri-gioco, avventure interattive realizzate dividendo un testo in paragrafi e collendoli secondo diversi percorsi logici. Missione Disperata è la versione italiana del libro The Trolltooth Wars, un racconto fantasy situato nel Mondo di Titano, l’ambientazione della celebre collana di gamebook inglesi Fighting Fantasy.

Nel 1989 erano usciti 24 volumi della serie ed alcuni progetti paralleli come Sorcery e Clash of the Princes, perciò si era accumulato materiale a sufficienza per scrivere uno o più racconti che approfondissero personaggi e luoghi citati nei libri-gioco. Il titolo inglese si concentra su un grande evento per il continente di Allansia: la guerra tra le truppe del caos di Balthus Dire, signore della Torre Nera, e le legioni del negromante Zharradan Marr. Il malvagio stregone che risulterà vincitore conquisterà anche la supremazia sul territorio, in particolare sulla pacifica città di Salamonis. Un guerriero coraggioso e fedele, Chadda Darkmane, viene inviato da Re Salamon in una missione disperata per impedire che uno dei due prevalga. Egli viaggia in compagnia di strani alleati: il Chervah, una creaturina dalle strane abitudini e dalla spiccata sensibilità, e Jamut Mantrapper, un abile mercenario dal carattere impetuoso. Nel loro viaggio visiteranno luoghi ben noti agli appassionati di Fighting Fantasy: la Foresta di Yore, la Torre di Yaztromo e la Montagna Infuocata, presso la quale troveranno il terzo grande mago di Allansia, Zagor.

Questo romanzo ricalca da vicino il naturale svolgimento di un libro-gioco fantasy, anzi, in certi punti vengono riproposti scene e personaggi delle avventure più famose di Jackson e del collega Ian Livingstone, arricchite di dettagli ed adattate alla storia. Per chi conosce l’ambientazione è piuttosto gradevole scorrere queste 290 pagine, attraverso cui si dipana una trama semplice ma con qualche bella trovata. Dopo 20 anni il finale riesce ancora a spiazzare, perché introduce gli eventi in un disegno più grande che non affiora mai in superficie. Parallelamente, è interessante seguire i vari attori nelle loro mosse, invece di restare legati indissolubilmente alla figura dell’eroe. Il punto più sorprendente è la trasmigrazione di Balthus Dire nel mondo degli spiriti, realizzata tramite un’erba magica chiamata cunnelworth. Un’esperienza simile più ad un trip di stupefacenti che al classico viaggio magico!

La prosa di Jackson tradotta in italiano suona un tantino piatta, del resto i suoi libri-gioco non concedono granché alle infiorettature stilistiche. Missione Disperata si rivela un libro facile da affrontare e lontano da ogni complessità che vada oltre la sospensione del racconto nel momento cruciale, il colpo di scena e la rivelazione conclusiva. I personaggi non sono particolarmente approfonditi, soprattutto il protagonista che è il più classico degli eroi. Quelli che restano più impressi sono i tre stregoni, forse perché di solito viene riservato poco spazio al retroscena dei grandi malvagi. Qui c’è un’equa suddivisione tra la ricerca di Darkmane e la guerra tra Dire e Marr, combattuta tra creature umanoidi, spiriti ultraterreni e mostri orribili.

Consigliato a tutti gli appassionati di libri-gioco, Missione Disperata è un romanzo agile che si legge tutto d’un fiato, privo di complicazioni e situato in un tipico scenario fantasy anni Ottanta. Non contiene nulla di eclatante in senso assoluto, perciò tenderei a classificarlo come un testo per iniziati, già familiari con il Mondo di Titano ed i vari Fighting Fantasy. A me ha fatto venire una gran voglia di riprendere in mano The Warlock of Firetop Mountain!

Inviato il: 24/11/2008 8:09

Ultima modifica di Gurgaz il 24/11/2008 11:01:21
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Re: Recensioni dei libri
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IL SOSIA --- di Fëdor Dostoevskij

Subito dopo il fortunato inizio della sua carriera, sancito dalla pubblicazione di Povera gente, Dostoevskij scrisse uno dei suoi romanzi più originali ed atipici. Nel 1846 uscì Il sosia, accompagnato dal sottotitolo Avventure del signor Goljàdkin, un racconto di 203 pagine che approfondisce in maniera speciale ed insolita una strana forma di nevrosi.

Il protagonista, il signor Goljàdkin, è consigliere titolare presso un ministero a San Pietroburgo, nient’affatto un’alta carica come potrebbe sembrare, ma abbastanza per lavorare in un ufficio non distante da quello di sua eccellenza. La vita dell’impeccabile funzionario viene improvvisamente sovvertita dalla comparsa di un sosia, uno scherzo della natura che gli somiglia in tutto e per tutto, dall’aspetto fisico al nome di battesimo. Sconvolto dalla strana coincidenza, Goljàdkin tenta prima di prendere confidenza col misterioso individuo, ma si ritrova tradito e perseguitato dal malvagio gemello che si sostituisce a lui, conquistandosi i suoi meriti e mettendolo in cattiva luce presso i superiori. Goljàdkin vive in un incubo dal quale non riesce a svegliarsi, in cui viene coperto di infamie e calunnie, finché si trova incastrato, privato dell’incarico e pubblicamente umiliato.

Vicenda surreale, perché interamente costruita dalla mente paranoica del protagonista. Nelle prime scene, le uniche completamente reali, il signor Goljàkdin visita il dottor Krestjàn Ivànovic, trattando i suoi dubbi e paure in una sorta di seduta psicanalitica ante litteram. Ma il consigliere è preda della nevrosi, vede maldicenze ed invidia ovunque, e si crea un doppio immaginario di cui cadere vittima ed annegare i suoi sensi di colpa, trovando conforto nella persecuzione che crede di subire e che invece si trascina addosso da sé.

È una delle opere più sorprendenti del grande scrittore, una finzione letteraria geniale che tiene avvinti alle pagine, soprattutto nella parte centrale del racconto. All’inizio non si capisce quel che sta per accadere e la fine non è presentata in modo da essere un’incontrovertibile agnizione per il lettore. Purtroppo restano diversi dubbi e dettagli non chiariti, per cui la soddisfazione globale è molto minore di quanto potrebbe essere. Sono sicuro però che molti autori moderni si sono ispirati a Dostoevskij per scrivere racconti visionari, limitandosi ad utilizzare un linguaggio più accessibile ed un narratore onnisciente, almeno in alcuni punti.

Il lessico molto forbito ed i dialoghi dal tono ottocentesco, tartagliati ed infarciti di pleonasmi, non rendono facile la comprensione immediata del testo. L’atteggiamento ideale è tenere un ritmo di lettura lento e disteso, eventualmente tornando indietro di qualche pagina se sfugge qualcosa. Questo perché Il sosia non ha valore in quanto narrazione, ma soprattutto per il quadro delirante della visione di Goljàdkin, magnifico nella sua architettura.

Si legge in fretta, è breve ed a tratti coinvolgente, tuttavia non è facile da capire ed assimilare. Se non fosse per questo ermetismo che mi ha bloccato in un paio di occasioni, pur nella mia dimestichezza con l’autore e con i romanzi del suo periodo, sarei tentato di proclamare Il sosia come uno dei libri più stupefacenti che io abbia mai letto, in particolare per la costruzione eccellente dell’illusione. Così non è, quindi mi limito a consigliarne la lettura solo a chi è disposto ad impegnarsi a fondo, per cogliere i particolari di questa rappresentazione delle allucinazioni paranoiche di un umile funzionario dello stato zarista.

Inviato il: 2/12/2008 19:56
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Re: Recensioni dei libri
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LE CENTOVENTI GIORNATE DI SODOMA --- di Donatien Alphonse François de Sade

Per recensire a dovere un’opera problematica come Le Centoventi Giornate di Sodoma, è necessario spendere quattro parole sulla sua travagliata genesi. Nel 1785 D.A.F. de Sade è incarcerato nella torre della libertà, alla Bastiglia, e lì inizia la redazione del manoscritto. Sa di aver concepito un testo originale e rivoluzionario, ed è anche consapevole del rischio di sequestro. Decide così di scrivere su minuscoli pezzi di carta, che unisce ed arrotola per nasconderli ai carcerieri. Il giorno della presa della Bastiglia, il 14 luglio 1789, Sade è trasferito in fretta e furia e non riesce a salvare le sue opere dal saccheggio. Il manoscritto andrà perduto, con grande rammarico dell’autore, e sarà ritrovato solo nel 1900 presso un libraio tedesco.

La storia serve a giustificare l’esposizione di un’enciclopedia delle passioni umane, che mira da un lato a mostrare di cosa è capace l’uomo quando può sfogare a piacimento i propri istinti, dall’altro a dichiarare un bisogno profondo di libertà. Quattro nobili e ricchi signori, il Duca di Blangis, suo fratello il Vescovo di..., il presidente della corte Curval ed il finanziere Durcet, si riuniscono in un castello inaccessibile sulle montagne svizzere, per trascorrervi centoventi giorni di sfrenata dissolutezza. Quattro meretrici sono incaricate di stimolare la loro immaginazione con una serie di racconti a tema, organizzati secondo il tipo di passioni (semplici, doppie, criminali, omicide), mentre i signori si dilettano con un serraglio fatto di otto magnifici fanciulli ed otto stupende fanciulle, che un po’ alla volta vengono deflorati e sostituiscono le quattro mogli nelle camere dei libertini. Man mano che i racconti si fanno più spinti, crescono gli abusi e le perversioni, che culminano nelle ultime settimane in cui tutti i ragazzi, le mogli, le governanti ed altri personaggi di secondo piano sono sacrificati all’insano piacere dei quattro scellerati.

La perdita degli appunti della Bastiglia impedì a Sade di ultimare il lavoro, di cui sono state completate solo l’introduzione e la prima parte (trenta giornate), mentre le restanti tre parti esistono solo come appunti e note dettagliate, più qualche brano allo stadio di bozza. Si possono dunque apprezzare soltanto le presentazioni dei personaggi, figure alquanto colorite, e le narrazioni delle passioni semplici, ossia quelle che coinvolgono esclusivamente due persone.

Chi non è preparato a leggere “qualsiasi cosa” sentirà molto presto l’esigenza di chiudere il libro e gettarlo lontano. Perché spendere tante pagine a narrare perversioni assurde, in certi casi talmente esagerate da trascendere l’umanità di chi le compie? Difficile da spiegare, se non come una critica assoluta alle schiavitù morali e comportamentali imposte all’uomo dalla società. I personaggi di Sade sono creature ripugnanti, così avvezze alle brutture ed alla malvagità che si collocano ben al di fuori della zona in cui il lettore è tentato d’immedesimarsi. Sono alieni ed orribili nella loro dissolutezza, tuttavia i paralogismi filosofici e le dissertazioni che inseriscono tra orge e sontuosi banchetti destano un certo interesse. Nelle loro figure traspaiono sia la libertà illimitata, cui tutti aspirano perché oppressi delle consuetudini, sia le conseguenze disastrose del suo esercizio, che ogni persona di buon senso non può che condannare.

Ci vuole fegato per leggere un libro del divin marchese, tuttavia Le Centoventi Giornate ha il pregio di essere scritto in modo accattivante. In altri libri, per esempio Juliette, Sade tende ad essere prolisso, a dilungarsi fino alla noia in sterili dibattiti filosofici. Qui tutto fila liscio come l’olio e perfino le narrazioni degli atti sessuali e perversi, ripetute fino alla ritualità, non stancano mai del tutto ed a tratti stupiscono per la loro creatività. Se mai fosse possibile consigliare un libro di questo autore, che non è per tutti ma solo per chi non si ferma alle apparenze e sa valutare i contenuti, la mia scelta cadrebbe proprio su questo, nonostante l’incompletezza formale della narrazione. Un testo pericoloso se mal interpretato, resta comunque una buona fonte di riflessioni ed un caposaldo nell’evoluzione/degenerazione dell’uomo moderno.

Inviato il: 29/12/2008 22:47
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Re: Recensioni dei libri
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LA LUNA E I FALÒ --- di Cesare Pavese

Non sono un amante di Cesare Pavese e mi considero un detrattore incallito della letteratura italiana del Novecento. Lo stato delle cose nasce dall’insistenza con cui, a scuola, certe opere mi sono state imposte come essenziali e vitali allo sviluppo della persona, mentre molto altro, di qualità decisamente migliore e dotato di maggior forza espressiva, mi è rimasto celato finché per caso non mi ci sono imbattuto. Così facendo si fa passare alla gente la voglia, altro che; non c’è da stupirsi se gli italiani leggono poco e misconoscono la letteratura internazionale.

La Luna e i Falò è il canto del cigno dell’autore piemontese, il lavoro in cui le sue tematiche e il suo stile trovano la loro migliore e compiuta espressione. Molto curiosamente, Pavese ha instillato nella sua opera estrema un fortissimo elemento autobiografico, scaturito nell’estate del 1949 dopo una fitta corrispondenza con Pinolo Scaglione, amico d’infanzia e partigiano antifascista. Il romanzo vede un emigrante far ritorno al borgo natio nelle Langhe, dal quale era fuggito in cerca di fortuna. Egli giunge dall’America molto cambiato nel corpo e nel pensiero, e si stupisce di trovare un paese così simile a come lo ha lasciato. Tutto gli ricorda qualcosa: passeggiando sulla piazza, nelle campagne, nelle vigne e nei poderi, un po’ alla volta il protagonista si racconta e presenta al lettore la vita rurale, fatta di umili lavori, bracciantato, fiere paesane e ragazze da maritare. La luna, che la superstizione umana ha eletto ad arbitro delle attività agricole, ed i falò, fuochi di gioia che illuminano le notti e ridanno vita alle colture, sono i simboli del mondo perduto dell’infanzia di Pavese. Durante la sua visita, il protagonista incontra l’amico Nuto (alter ego di Scaglione) e ritrova se stesso bambino, nella forma dello sciancato Cinto. Memorie infantili e narrazioni del periodo di guerra riempiono gli spazi tra i pochi eventi reali che animano le pagine del libro.

I pregi di quest’opera sono molti; in primo luogo, è veramente curata nello stile ed inserisce con sapienza il linguaggio dialettale dell’agricoltura in una prosa semplice, piacevolmente priva di fronzoli. A questo s’aggiunge l’autenticità del resoconto, risultato delle esperienze vissute ed ispessito da interessanti riflessioni. Il ritorno a casa è l’occasione per rivivere la vita trascorsa e formare la propria consapevolezza che tutto passa e si dissolve; restano le cose, gli odori, i sapori, laddove le persone scompaiono, sia perché muoiono, sia perché crescono e cambiano.

È un lavoro di 170 pagine, scritto in soli tre mesi e per questo motivo quasi miracoloso nella sua qualità. Allora perché incominciare la recensione da frasi così dure verso la letteratura italiana? La Luna e i Falò si può consigliare a fini didattici, a patto di introdurlo e spiegarlo estensivamente (cose che in Italia non si fanno), ma non posso fare a meno di ritenerlo sopravvalutato, un po’ come lo sono i quadri di un artista defunto, magari morto suicida.

Cosa può dare quest’opera di Pavese al lettore? Un bel quadro dell’ambiente rurale, che risulta molto suggestivo se la campagna è vista come un mondo lontano, oltre la periferia; per chi, invece, certe storie è abituato a sentirle dai nonni o a scorgerne i rimasugli nella vita di oggi, non c’è granché da scoprire. Resta un’approfondita e disperata riflessione sullo scorrere della vita, impreziosita da innesti di fascismo-antifascismo che sono ingredienti essenziali del dopoguerra italiano. Non mi sembra nulla per cui stravedere, o che giustifichi l’elevazione a grado di classico. Peccato che Cesare Pavese non abbia ricevuto la giusta comprensione dagli ambienti politici e culturali in cui militava, che lo hanno di fatto spinto all’estrema decisione; se avesse scritto ancora, avrebbe donato altro valido materiale ed approfondito il suo pensiero. Così com’è, la sua fama mi sembra più frutto degli scrupoli di chi, in vita, lo ha denigrato e, da morto, ha ritenuto di dovergli qualcosa. Da leggere con molta semplicità e senza eccessive pretese.

Inviato il: 31/12/2008 18:25
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Re: Recensioni dei libri
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I LIBRI DI LUCA --- di Mikkel Birkegaard

Questo libro mi è stato regalato per Natale ed è frutto di un’ispirazione momentanea e non meditata, il che equivale a dire che nella libreria gli avevano riservato una postazione privilegiata. Vendere un libro, oggi, è più questione di visibilità che altro, dato che i libri sono sempre ottimi regali ma sono acquistati più per istinto che per intenzione. Chi è questo Mikkel Birkegaard? L’autore de I Libri di Luca (titolo originale), best-seller e vero caso letterario del 2007 in Danimarca.

Chi è invece Luca Campelli? Non è il protagonista del romanzo, perché dopo poche pagine viene misteriosamente assassinato. È un italiano nato e cresciuto in Danimarca, proprietario di una libreria antiquaria a Copenaghen. La sua scomparsa ed il funerale richiamano il figlio Jon, avvocato in carriera ed inspiegabilmente dato in adozione vent’anni prima, dopo che la madre si era suicidata. Nel negozio che ora gli appartiene Jon ritrova il vecchio Iversen, dipendente ed amico di Luca, e conosce la giovane commessa Katherina. Come può una ragazza dislessica vendere dei libri antichi? Evidentemente c’è qualcosa di strano e Jon viene prontamente reso partecipe di un incredibile segreto: le persone non sono tutte uguali, alcune hanno dei poteri speciali legati ai libri. Tra loro si chiamano Lectores e si dividono in due specie: trasmettitori, capaci di leggere un testo ed influenzare comprensione e sensazioni di chi ascolta, e recettori, che sanno percepire la lettura (anche mentale) degli altri ed intensificare le emozioni provate. Circa vent’anni fa la segreta Società Bibliofila si è spezzata in queste due fazioni che oggi si vogliono riunire, ma quello di Luca è solo il primo omicidio che impedisce il riavvicinamento. Rimasto senza lavoro a causa di Otto Remer, un cliente potente ed esigente, Jon Campelli si butta anima e corpo nella ricerca di spiegazioni sulla morte del padre. Durante l’indagine scopre i suoi stupefacenti poteri di trasmettitore e, come tutti si aspettavano, il suo amore per Katherina.

I Libri di Luca è un romanzo del filone del Codice Da Vinci, di cui condivide il ritmo e lo sviluppo dei protagonisti, solo che in questo caso si sconfina non solo nel “sapere proibito”, bensì nel paranormale. I Lectores sono una trovata originale e la storia è tutta costruita sulla rivelazione dei loro poteri. Lontano anni luce dalle polemiche complicazioni esistenziali di Dan Brown, Birkegaard si limita a raccontare una vicenda fantastica, ricca di colpi di scena a volte intelligenti, ma più spesso prevedibili. Dispiace solo che la storia ad un certo punto recida ogni legame con la realtà: i personaggi cominciano ad agire in funzione della trama, sono completamente presi da quel che gli accade e dimenticano il mondo circostante. Così fa l’autore, che offre pochi banali scorci della sua Danimarca e conduce la trama con vistosa faciloneria.

Non conosco il danese e ho letto Birkegaard tradotto in italiano. La sua prosa mi sembra fluida, disadorna e molto ligia ai canoni contemporanei. Le 430 pagine scorrono come un fiume in piena, perché prevalentemente fatte di dialogo. Non ci sono troppi luoghi da visitare e questi non sono descritti a fondo, neppure quello scelto per il gran finale (che non posso rivelare). È quindi facile iniziare e finire I Libri di Luca, anche se, come mi è accaduto, la lettura ha perso molto fascino dopo le prime duecento pagine.

Il problema principale è che la buona idea dei Lectores è sviluppata con scarsa raffinatezza, perché tutte le sue implicazioni non vengono mai a galla, non si mescolano col reale e restano un mondo parallelo dal quale non c’è nulla da imparare. Il protagonista è l’ennesimo predestinato dai poteri inauditi, che attira l’interesse dei Lectores assetati di potere. Peccato che non ci siano avvisaglie e che tutto il castello costruito dal padre per proteggerlo non sia giustificato. Proprio così, anche Luca prima di morire ha lasciato qualche indizio per il figlio e preparato un piano per “smascherare i cattivi”, ma come poteva conoscere le facoltà di Jon? Un libro gradevole, ma troppo semplicistico. Forse è questo il segreto per diventare oggi un best-seller?

Inviato il: 6/1/2009 19:30

Ultima modifica di Gurgaz il 6/1/2009 20:55:05
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Re: Recensioni dei libri
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LE SVENTURE DELLA VIRTÙ --- di Donatien Alphonse François Sade

Bel titolo no? Questo libretto di 144 pagine fu scritto nel 1787 quando De Sade era già prigioniero nella Bastiglia e costituisce la prima versione di un racconto che comparirà in altre due vesti, sempre più ampie e ricche di dettagli. Nel 1792 l’autore lo ripubblica come Justine, o le sventure della virtù, il cui titolo fa eco a Juliette, o le prosperità del vizio. Nel 1797 questa novella sarà il punto di partenza della colossale dissertazione filosofica in dieci volumi, ornata di narrazioni immorali, che viene ricordata come la Nouvelle Justine.

È un racconto commovente, in cui un’onesta sventurata di nome Justine incontra la facoltosa madame de Lorsange, al secolo sua sorella Juliette, arricchitasi con ogni sorta di crimini ed abusi. Prima di riconoscerla, Juliette ascolta la storia di Justine e della sua vita sfortunata, che l’ha portata innocente sulla strada del patibolo. La giovane si è sempre comportata con lealtà e semplicità d’animo, poiché la sua natura la spinge a seguire gli impulsi della virtù. Ma la provvidenza che lei tanto stima e teme la getta in un mare di disgrazie, quasi volesse castigarla per la sua rettitudine. La castità è punita con la povertà (episodio di Dubourg), il rifiuto di commettere un furto con la condanna per averlo commesso (episodio di Du Harpin), il rifiuto di avvelenare una nobildonna con frustate (episodio di Madame de Bressac), il desiderio di accostarsi ai sacramenti con la prigionia e lo stupro (episodio dei monaci), la beneficenza con la schiavitù e gli abusi (episodio del capo dei falsari) e il tentativo di salvare un bambino dall’incendio con l’accusa di averlo appiccato, che la porta alla pena capitale. Ma Juliette è rimasta commossa dalla sua storia e si adopera per scagionarla; quando vi è riuscita, la mano del destino si abbatte implacabile su Justine, che viene colpita da un fulmine ed uccisa.

Le avversità in cui incorre Justine sono piuttosto esagerate ed inverosimili, tuttavia si prestano agli intenti dell’autore, che sotto una novella, molto meno oscura di altre sue opere, nasconde uno dei temi a lui più cari: la negazione della natura divina dell’uomo e della provvidenza in generale. Tra una disavventura e l’altra, Justine conosce un sacco di personaggi dalle maniere feroci e libertine, che deridono la sua condotta e si divertono a renderle la vita difficile. Costoro tentano di convincerla con discorsi speculativi ad abbandonare la sua strada, ma ogni volta resiste strenuamente e rifiuta di prestarsi al crimine. Sebbene lei si aspetti di vedere, prima o poi, una giusta punizione per quei peccatori, assiste solo alla loro gloria ed ascesa sociale, cioè tutto il contrario di ciò che si aspetta.

Tutto sommato il contenuto filosofico è discutibile e la sua maturità piuttosto lontana da quella delle opere successive. Le sventure della virtù ha il pregio di essere breve e privo di complicazioni, sia per quanto riguarda il lessico sia per gli attentati al pudore, che in questo libro non sono così tanti. Il marchese non aveva ancora iniziato a scrivere tutto quel che gli passava per la testa, perciò ha accettato di nascondere tramite la verecondia di Justine le orribili perversioni che fa commettere ai suoi “eroici” libertini.

Non la considero un’opera fondamentale, almeno in questa prima versione, tuttavia è gradevole perché denota già l’arte di quel maestro della parola che è De Sade. Potrebbe essere un buon libro per prendere confidenza col pensiero filosofico dell’autore, spesso duro e difficile da digerire. Ma la difficoltà nell’accettare la filosofia sadiana va ricondotta alla sua vicinanza a ciò che gli uomini provano di quando in quando, magari nel segreto, e non osano confessare neppure a loro stessi.

Inviato il: 10/1/2009 13:56
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Re: Recensioni dei libri
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CRONACHE DEL MONDO EMERSO --- di Licia Troisi

Dopo anni di curiosità mista a riluttanza, ho deciso di prendere in esame le opere di Licia Troisi, scrittrice fantasy romana e quasi mia coetanea. I suoi romanzi situati nel favoloso Mondo Emerso costituiscono una delle vie preferenziali al fantasy per il pubblico italiano, prevalentemente formato da adolescenti e giovani intorno ai 20 anni. Volevo capire quali sono i motivi del suo successo, oltre alle belle copertine di Paolo Barbieri e alla favorevole pubblicità di cui la Troisi ha sempre goduto.

Le Cronache del Mondo Emerso è la prima trilogia scritta dall’autrice, conta circa 1300 pagine scritte a caratteri cubitali per dare l’impressione di leggere autentici “tomi” e sprecare più carta del necessario. In queste pagine si delinea una storia compiuta, dove i classici toni epici del fantasy sono sovrastati da visioni più introspettive ed esistenziali, chiaramente rivolte ad un pubblico molto giovane. Nel primo volume, Nihal della Terra del Vento, si conoscono i protagonisti, la mezzelfo guerriera Nihal e il mago Sennar, adolescenti destinati a salvare il Mondo Emerso dal dominio del crudele Tiranno. In fuga dalla loro città natale, i due seguono strade diverse, che li portano a diventare la prima Cavaliere di Drago nell’esercito delle Terre Libere, il secondo un membro del Consiglio dei Maghi. La storia prosegue ne La Missione di Sennar, il cui nucleo principale è il viaggio del mago a Zalenia, il Mondo Sommerso, in cerca di aiuto. Nel frattempo, Nihal prosegue la lotta contro il nemico, cerca una vera causa per cui combattere e scopre di essere Sheireen, la prescelta degli dei per spezzare il giogo del Tiranno. La battaglia finale avviene nel terzo volume, Il Talismano del Potere, occupato dalla lunga ricerca di otto pietre magiche, ciascuna custodita da uno Spirito della Natura. Una volta assemblate in un talismano, le Pietre consentono a Nihal di annullare la magia del Tiranno e di guidare l’attacco alla sua Rocca, dove lo affronterà per la salvezza del Mondo Emerso.

Dal riassunto si capisce che la trama base è quella solita: lotta Bene contro Male, prescelto che salva il mondo, grandi viaggi, ricerche disperate e battaglie, posti in un contesto nuovo ma non troppo. Il Mondo Emerso è un’ambientazione ricca di magia e di creature semi-umane, di santuari perduti e tradizioni fantasiose, quel che si trova abitualmente in un manuale per gioco di ruolo e che affascina l’immaginazione quando questa galoppa a briglie sciolte.

La vicenda ha una tensione narrativa molto leggera, soprattutto nel terzo libro, tirato troppo per le lunghe con la prolissa ricerca delle Pietre, intervallata da eventi eclatanti, squisitamente pilotati, che riempiono i buchi tra una tappa e l’altra senza badare alla verosimiglianza. Licia Troisi si affida alla psicologia adolescenziale dei suoi personaggi per creare colpi di scena ed attesa nel lettore: i loro pensieri sono istintivi, idealistici ed insofferenti, perciò anche dal rimprovero più sacrosanto nascono dissidi che si riparano solo dopo diverse pagine. Intanto la storia va avanti, gli eventi si susseguono, e solo le tormentate interiorità di Nihal e Sennar riescono a dar loro significati inauditi, che il lettore non avrebbe mai potuto immaginare da sé.

I momenti migliori sono nel primo e nel secondo volume, in mezzo a quelli più forzati e pretestuosi, che purtroppo non cessano di affiorare per creare falsa tensione ed assurdi colpi di scena. La strada verso la maturazione è tortuosa e fatta di tappe più o meno significative, ma globalmente il suo peso è superiore a qualsiasi evento determinante. La battaglia finale col Tiranno non è né così epica né così sofferta come ci si attende, anzi, pare conclusa in fretta e furia e condita con alcune scene patetiche fuori luogo. L’Epilogo che chiude le Cronache delude per l’eccessivo buonismo, che nel dialogo tra Nihal ed il Tiranno sembrava essere stato accantonato.

Lo stile di Licia Troisi sembra nato per facilitare la lettura, a qualsiasi prezzo. Il periodare è spezzato, ha paura delle frasi secondarie e cerca la semplicità per non doversi curare troppo delle parole. Un lettore esperto resta perplesso da qualche frase venuta proprio male, da errori di battitura sopravvissuti ai correttori e, in generale, dall’assenza di costrutti degni di interesse. Una descrizione appassionante, che usi le parole adatte e stupisca per originalità ed ispirazione, è molto rara.

Io critico quel che offusca il prestigio di cui godono questi libri, ma non dimentico di citare il loro più grande pregio: sono semplici, immediati ed efficaci. Sono quello di cui hanno bisogno gli adolescenti di oggi per accostarsi alla lettura: un testo che non li mette in difficoltà ma li prende per mano, li cala in un mondo facile da immaginare e racconta la crescita di due ragazzi, autori d’imprese che né il loro fisico né la loro mente potrebbero giustificare.

Il mondo reale, sempre più meccanizzato ed informatizzato, si traduce nella nuova visione del fantasy, in cui tutto è divenuto questione di poteri speciali, predestinazione, forza interiore che supplisce alle carenze naturali. Non serve essere Conan il Barbaro per battere in combattimento dieci guerrieri ben addestrati: basta essere un’esile mezzelfo della Terra del Vento, addestrata da un fabbro e perfezionata da qualche mese di allenamento con un bravo guerriero. Non consiglio le Cronache del Mondo Emerso a nessun lettore in cerca di grandi emozioni e mature riflessioni. Bisogna essere giovani ed inesperti per restarne affascinati.

Inviato il: 1/2/2009 15:46
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Re: Recensioni dei libri
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SAHARA --- di Clive Cussler

Dopo lunghi tentennamenti ho trovato il coraggio di leggere un romanzo scritto da un autore “mainstream” americano, cioè uno di quelli che vendono milioni di copie, sfornano pagine ad un ritmo pazzesco e hanno costante successo presso pubblico e critica, che per qualche strano motivo non gli danno mai contro. L’esperimento è stato condotto su un libro che ho trovato in casa, Sahara di Clive Cussler, romanzo del 1993 di cui ho visto il film senza che mi rimanesse impressa la trama.

Le prime cinquanta pagine sono spiazzanti, perché non si capisce un accidente. Cussler racconta la fuga di una corazzata sudista durante la guerra civile americana, poi la sparizione nel deserto del Sahara dell’aviatrice australiana Kitty Mannock. All’improvviso inizia la storia vera: nel golfo di Guinea si è formata una marea rossa di dinoflagellati mutanti, la cui crescita inarrestabile accompagnata dalla soppressione degli altri organismi marini rischia di provocare un disastro ecologico globale. Dirk Pitt e Al Giordino, uomini pieni di risorse e capaci di cavarsela in ogni situazione, sono inviati in missione lungo il Niger per scoprire l’origine della contaminazione. Nel frattempo un team di scienziati dell’OMS, di cui fa parte la dottoressa Eva Rojas, è nel Mali perché un’epidemia terrificante sta decimando la popolazione locale. Il governo del paese, saldamente in mano al generale Zateb Kazim, vuole proteggere le criminose attività di smaltimento rifiuti gestite dal magnate francese Yves Massarde, per questo gli scienziati spariscono nel nulla e ben presto Pitt e Giordino si trovano a combattere nel Sahara Occidentale una guerra senza quartiere.

Dirk Pitt è l’alter-ego avventuroso dello stesso Clive Cussler, fin dalla gioventù impegnato in imprese rischiose come il recupero di relitti e la ricerca di tesori scomparsi. Forse i fan riterranno Pitt un personaggio credibile, perché forte delle esperienze dell’autore, ma io credo che Cussler non abbia compiuto neppure la metà delle prodezze della sua controparte fantastica, altrimenti non sarebbe qui a raccontarle. Sahara è il perfetto romanzo d’avventura, dove l’accurato realismo si mescola a prospettive apocalittiche e situazioni estreme. A parte il finale un po’ eccessivo, la vicenda si mantiene verosimile e non allenta mai la tensione. Ci si diverte molto a leggere questa bella avventura e, quel che è più importante, non si scuote mai la testa per l’eccessiva banalità.

I personaggi sono una miriade, oserei dire fin troppi, e ciascuno è descritto secondo un giusto grado d’approfondimento. Molto interessante l’ambientazione africana improntata sul Mali, uno degli stati più poveri della Terra, ma che sfiora anche Algeria, Benin, Niger ed Egitto. Questi i teatri selvaggi e misteriosi della disperata impresa dei protagonisti, che si dimostrano autentici “duri a morire”. La fortuna (= l’autore) è dalla loro parte e le loro manovre danno sempre l’esito sperato, ma c’è sufficiente tensione ed incertezza per tener viva l’attenzione.

La traduzione italiana (Roberta Rambelli per Longanesi) è discreta e riproduce una prosa semplice e regolare, il cui scopo è raccontare nel modo più suggestivo e divertente possibile. Direi che ci riesce in pieno, perché le 560 pagine scritte in piccolo scorrono senza intoppi, grazie alla trama ben studiata e alle rapide digressioni presso gli uffici presidenziali americani, il Palazzo di Vetro e le sedi di organizzazioni internazionali.

Oltre ad appassionare con un bel racconto, Cussler cerca di trasmettere un messaggio ecologista e di invocare un impegno globale a favore dell’ambiente. Ovvia conseguenza di questo è il ruolo centrale dell’ONU, mentre l’America appare trattenuta dalla burocrazia interna. Negli Anni Novanta si credeva a tal punto nelle Nazioni Unite che l’autore si è perfino immaginato un Segretario Generale donna. Al di là che si creda o meno negli organismi internazionali, trovo che alla fine i cattivi facciano una fine troppo brutta perché si possa gioire della vittoria. Per il resto, Sahara è una buona lettura per svagarsi e calarsi in realtà per noi molto distanti.

Inviato il: 15/2/2009 14:47
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