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EUGENIO ONEGHIN --- di Aleksandr Sergeevic Puškin
Per amare quest’opera di Puškin mi è bastato vedere che è scritta in poesia. L’unico mio rammarico è non conoscere la lingua russa, per poter apprezzare veramente la musicalità e la ricercatezza del Evgenij Onegin, che lo stesso autore considera la sua opera più importante. Mi sono perciò affidato ad una traduzione e spero che Ettore Lo Gatto sia riuscito a conservare il sapore dell’originale. Evgenij Onegin è un “romanzo in versi”, una specie di adattamento del testo poetico alla moda ottocentesca, che richiedeva con forza questo tipo di testo letterario. È suddiviso in 8 capitoli, costituiti da una cinquantina di strofe da 14 versi, più i frammenti di un nono capitolo che fu presentato e poi ritirato dall’autore. I capitoli furono pubblicati uno alla volta, tra il 1823 e il 1832; in quest’arco di tempo Puškin passò attraverso nuove esperienze personali, che sono puntualmente riportate nell’opera. Infatti, sebbene il racconto sia perfettamente indipendente, la vita e i pensieri dello scrittore si intrecciano con quelli dei suoi personaggi, o sotto forma di digressioni ispirate dai luoghi, oppure trasferiti direttamente nei protagonisti. La vicenda è molto semplice e del tutto secondaria rispetto alla poetica e all’introspezione compiute dall’autore. Eugenio Oneghin è un nobile russo, che trascorre a Pietroburgo una vita agiata che lo sprofonda nell’inerzia e nella malinconia. L’inattesa morte di uno zio lo rende proprietario di una vasta tenuta rurale, dove decide di stabilirsi. Per molto tempo vive da misantropo, evitando di mescolarsi con la gente del posto; poi conosce il poeta Lenskij, che lo introduce alle sorelle Larin, Olga e Tatiana. Lenskij è perdutamente innamorato della prima, mentre Tatiana resta folgorata da Eugenio. La ragazza confessa il suo amore ad Eugenio, ma questi le rivela di non poter più nutrire tale sentimento. Tatiana è addolorata, ma conserva la speranza a lungo, finché ad una festa Eugenio si comporta galantemente con Olga e scatena la gelosia di Lenskij. I due amici si sfidano a duello e il poeta muore. Eugenio è assalito dal rimorso per l’inutile fine dell’amico e decide di lasciare la campagna. I suoi viaggi avrebbero dovuto essere descritti nel capitolo rimasto incompleto. Nel frattempo, la memoria di Lenskij è subito dimenticata: Olga si sposa, mentre Tatiana visita la casa vuota di Eugenio e impara a conoscerlo attraverso i libri della sua biblioteca. Compreso finalmente l’animo dell’amato, Tatiana si lascia persuadere dalla madre a trasferirsi a Mosca, dove trova ben presto un buon partito. Il capitolo finale narra il ritorno di Oneghin e l’incontro con Tatiana, divenuta cittadina. Il ritorno di fiamma del protagonista è respinto dalla donna, benché conservi l’antico sentimento. C’è molto materiale autobiografico in queste pagine, che risultano realistiche e coinvolgenti proprio per questo motivo. Anche se imbevuto di concetti romantici, assorbiti da Byron e altri autori (prontamente citati nell’opera), Puškin riesce a superare il Romanticismo perché intesse una storia credibile e forte dell’autenticità delle emozioni. Da parte mia, credo che le migliori opere letterarie siano quelle dove lo scrittore infonde una parte di sé, trasformando l’esercizio di un’arte in una rappresentazione del proprio spirito. L’autore offre molto su cui riflettere, ma non si limita a questo. Una poetica piana e senza fronzoli gli permette di tracciare quadri di rara bellezza, senza distrarre il lettore con difficili stilemi e citazioni incomprensibili. Inoltre, la società russa del XIX secolo trova una chiara rappresentazione, che abbraccia le usanze, le contaminazioni straniere, i pregi e i difetti di un modo di vivere che ci è perlopiù ignoto. Leggere Evgenij Onegin può essere un modo alternativo per informarsi. Consigliato a tutti gli amanti della poesia, anche se come me preferiscono i classici italiani. Sono tentato di suggerirlo anche a chi la poesia non la legge volentieri, perché sa comporre la semplicità con la raffinatezza, unendo proficuamente i pregi del romanzo a quelli del componimento in versi.
Inviato il: 5/1/2008 9:42
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LA FIGLIA DEL CAPITANO --- di Aleksàndr Sergéevic Puškin
Come ho già avuto modo di sottolineare, uno dei pregi maggiori di Puškin è la capacità di ottenere risultati strepitosi impiegando una mole di carta ridottissima, soprattutto in paragone a molti compatrioti che lo venerano come un maestro. Con La figlia del capitano l’autore sperimenta il romanzo storico, genere esploso nel XIX secolo e destinato ad un grande successo di pubblico e critica. Le differenze con i più famosi Manzoni e Scott saltano subito all’occhio: a Puškin bastano circa 150 pagine per avviare e concludere la vicenda; inoltre, lo scrittore tenta di descrivere fatti piuttosto recenti, ancora vivi nella memoria della gente della sua epoca. Lo scenario è la grande sollevazione popolare del 1773 (il romanzo è del 1836), che vide l’impostore Pugačëv alla testa di grandi forze di sediziosi. Il fantomatico capopopolo si era spacciato per il redivivo Pietro III, lo scomparso marito della zarina Caterina II, ed era stato capace di radunare attorno alla sua persona una torma di dissidenti, briganti e traditori. In questo contesto si muove il protagonista, l’ufficiale Pëtr Andrejc Grinëv, destinato dal severo padre ad una rigida vita militare. Entrato a far parte della guarnigione di Belogorsk, il nostro eroe si innamora della figlia del capitano, Marja Ivanovna, ma i suoi teneri propositi sono tormentati da un altro ufficiale, l’infido Švabrin. Tutto sembra perduto quando il fortino è travolto dai ribelli di Pugačëv: i genitori di Marja sono trucidati e così tutti gli ufficiali fedeli all’Imperatrice. Per una serie di fortunate circostanze, Pëtr è risparmiato e si attira le simpatie di Pugačëv, nonostante rifiuti di mettersi al suo servizio. Il protagonista riesce a raggiungere Orenburg, la città che i ribelli intendono assediare, ma i potenti del luogo non seguono i suoi consigli e si rinserrano dentro le mura. Mentre la fame e le epidemie affliggono la città, Pëtr scopre che Švabrin, passato dalla parte dei ribelli, tiene prigioniera Marja Ivanovna, affinché acconsenta a sposarlo. Egli lascia Orenburg e, con l’aiuto di Pugačëv, libera l’amata. I due dovranno attendere ancora molti mesi per coronare i propri sogni, perché il loro destino è ormai legato a quello di Pugačëv. In questo romanzo, Puškin inserisce una storia di fantasia in uno scenario reale, a lui ben noto perché due anni prima aveva pubblicato un saggio, la Storia della rivolta di Pugačëv. Gli eventi principali del libro hanno così il sapore del vero, anche se l’interesse è catalizzato dai personaggi. Sono tutti eccellentemente delineati, senza ricorrere a colossali retrospettive od introspezioni. Ciò che mi stupisce di questo autore è proprio l’impareggiabile sinteticità, unita all’efficacia. Le sue figure non sono mai stereotipi, come si potrebbe presumere dalla brevità del testo; al contrario sono caratteri imprevedibili, in grado di stupire pur rimanendo coerenti col loro modo d’essere. Al di là dei personaggi principali, l’eroe Pëtr, il vile Švabrin e il feroce ma leale Pugačëv, troviamo una schiera di personalità minori eppur vitali per la trama, come il servitore Savel’ic, il capitano Mironòv e sua moglie Vasilisa. Solo la lettura può chiarire la profondità e il peso di tali individui, nonostante il poco spazio a loro disposizione. Si tratta di una breve ma intensa riflessione su un tema sempre vivo: il contrasto tra il proprio dovere e le proprie aspirazioni. A parer mio, il protagonista de La figlia del capitano non è mai abbandonato dalla sua buona stella, tuttavia la sua condotta idealistica e visceralmente romantica conquista ben presto la simpatia del lettore. Da raccomandare a chi cerca una lettura rapida che non sia né troppo impegnata (ed impegnativa), né priva di stimoli ed attrattive.
Inviato il: 5/1/2008 9:45
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FONDAZIONE: LA QUADRILOGIA COMPLETA --- di Isaac Asimov
Dopo almeno 10 anni ho tirato giù questo volume dallo scaffale, l’ho aperto e ho cominciato a leggere. Si tratta della raccolta di 4 racconti: Prima Fondazione, Fondazione e Impero, Seconda Fondazione, datati 1951-53 e L’Orlo della Fondazione, uscito negli Anni Ottanta. Non volendo soffermarmi sulla trama, peraltro inadatta ad essere riassunta qui (sono 500 anni di storia galattica!), mi limiterò ad un paio di note stilistiche e a qualche giudizio globale. Asimov possiede uno stile asciutto, piatto e poco ricercato nel lessico. La sua prosa è dialogica, non indugia praticamente mai in descrizioni e tende a raccontare più i pensieri che i fatti o le azioni. Personalmente, preferirei che uno scrittore utilizzasse più cura nel descrivere luoghi, persone ed oggetti che sono così difficili da immaginare. Asimov lascia tutto in sospeso, tutto all’immaginazione del lettore: se in certi casi questo ha un effetto positivo, perché con poche parole la fantasia prende il volo, in altri si resta un po’ disorientati e non ci si può raffigurare un bel niente. La vaga descrizione data di Trantor, il pianeta-città capitale dell’Impero Galattico, sortisce un grande effetto, poiché al lettore basta la sensazione di immane grandezza a far partire le congetture. Invece, le capatine fugaci su alcuni pianeti sono troppo scarne. Veramente non sono riuscito ad immaginare un bel nulla. Anche l’uso dei personaggi è del tutto singolare, visto che spesso non sono altro che un nome, privo di caratteristiche fisiche, psicologiche e di retroscena. Sono sempre figure dotate di grandi capacità intuitive, perlopiù scienziati di professione o scienziati “nello spirito”. E’ un clichè dal quale Asimov si scosta pochissime volte. La rapidità con cui usa e getta i vari individui impedisce di affezionarsi e di approfondire la conoscenza di questi. Quanto detto vale perlopiù per i primi tre romanzi; il quarto, L’Orlo della Fondazione, è un racconto più lungo, articolato, con un numero chiuso di personaggi ben sviluppati. Bisogna dire che Asimov ha maturato molto anche il suo stile narrativo: se i primi tre mi erano risultati poco interessanti, il quarto romanzo è dotato di un ritmo incessante che impone di proseguire la lettura. Fatto sta che l’ho terminato in 2 giorni. Questi racconti sono veramente pietre miliari della fantascienza; tanti luoghi comuni, reperibili in film come Guerre Stellari, sono stati sviluppati qui: il viaggio nell’iperspazio, i fulminatori, l’Impero Galattico, ecc..., anche se qui sono presentati in una veste scientificamente e storicamente più valida, sempre che si sia disposti a credere che un giorno la Galassia sarà dominio degli uomini. Asimov mostra una visione antropocentrica dell’Universo; non ci sono altre forme di vita e tutti i pianeti sono stati colonizzati, in un processo che ha perfino fatto dimenticare all’uomo di essere nato sulla Terra. E’ molto curioso come il pensiero dello scrittore vari dall’inizio alla fine della quadrilogia; inizialmente la fede nella scienza e nella tecnologia è altissima; subentra poi gradualmente l’idea di un governo di scienziati mentalisti illuminati; alla fine, nell’ultimo romanzo, trionfa una soluzione diversa, quasi spirituale, di cui non vi svelo nulla. Fondazione merita una lettura. Tende a prendere moltissimo nella parte iniziale, ad annoiare un po’ in quella intermedia per poi riacquistare interesse verso la fine. Se vi piace la fantascienza sicuramente avrete letto questo libro; se siete come me e non la gradite troppo, questo libro può essere una lettura piacevole ed un buon modo per accostarsi a questo ambito letterario.
Inviato il: 5/1/2008 9:46
Ultima modifica di Gurgaz il 19/3/2008 16:58:53
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I FRATELLI KARAMAZOV --- di Fëdor Dostoevskij
Non so come la pensino gli altri, ma nella mia esperienza di vita gli scrittori come Dostoevskij sono sempre stati circondati da un alone di mistero e sacralità. Come la Bibbia o il Corano, le opere di questi autori sono sulla bocca di tutti ma nessuno le osa leggere, come se si trattasse di oggetti destinati a pochi eletti culturalmente superiori, o con una forza di volontà spaventosa. Quando ho preso in mano questo tomo in formato tascabile, non avevo la minima idea di che cosa potesse contenere; ciononostante, ero vittima di un irresistibile timore reverenziale. Questo è l’ultimo romanzo di Dostoevskij, a detta dei critici “il vertice della sua arte di romanziere e la più alta enunciazione della sua problematica”. Sono felice di aver cominciato dal meglio e ancor più di essere riuscito ad apprezzarlo. I fratelli Karamazov è stato scritto in 3 anni (1878-1880) da uno scrittore maturo ed esperto, dunque non può che essere uno sforzo immane traboccante di contenuti. In 1071 pagine, Dostoevskij racconta una vicenda che può essere riassunta molto semplicemente: è una tragedia familiare, dove un padre snaturato e vizioso entra in rivalità amorosa con un figlio; il genitore ad un certo punto muore ammazzato e il primo ad essere sospettato è il figlio, anche se molto probabilmente è innocente. La trama principale è questa, ma il suo filo è intrecciato con mille altre piccole vicende, a prima vista isolate ma in realtà tutte collegate tra loro. L’autore non si limita a raccontare una storia, già interessante di per sé, ma presenta minuziosamente un vero e proprio microcosmo: il lettore accede a tutti i retroscena di una piccola cittadina russa, a diversi luoghi di interesse (il monastero, le taverne, i sobborghi, le case della gente) e, soprattutto, ai pensieri più intimi dei personaggi. La tragedia di Dmìtrj Karamazov, accusato di aver ucciso il padre Fëdor Pavlòvic perché insidiava la sua Grùšen’ka, è lo scenario ideale per dibattere i problemi dell’umanità: la moralità, la libertà personale, la religione, l’onore, l’onestà e chi più ne ha più ne metta. La potenza e la profondità dei personaggi è impressionante: in certe occasioni sembrano uscire dalle pagine ed assumere i volti dei viventi. Ciascuno possiede i suoi tratti caratteristici: ad esempio, i tre fratelli Karamazov sono tre tipologie ben precise di “uomo giovane russo”: Dmìtrj è l’impulsivo, romantico e schiavo delle passioni; Ivàn è l’intellettuale, cinico e tormentato; Alekšej è il saggio, caritatevole ed attaccato alle tradizioni. L’autore non ha nessuna intenzione di costringerli in cliché preordinati, anzi, desidera proprio spiegare e delineare la loro evoluzione psicologica e morale in seguito alla triste vicenda in cui sono coinvolti. Questo vale per loro come per tutti i personaggi, numerosissimi e tutti ugualmente forti ed indispensabili. Le vicende, i dialoghi, i flashback, le introspezioni, sono di somma qualità e ricchezza, come si trovano solo nei veri capolavori della letteratura. È un tesoro in cui vale la pena di investire il proprio tempo e la giusta dose di attenzione. Chi, come me, adora riflettere sui problemi più grandi di lui, troverà ne I fratelli Karamazov una manna inesauribile, un vero e proprio torrente in piena di dilemmi e possibili soluzioni, che segnano un parallelismo stupefacente tra XIX e XXI secolo. In tutti questi anni i nostri dubbi non sono cambiati, nonostante le numerose risposte formulate dalla visione laica e scientifica del mondo; anzi, forse si sono acuiti ed è necessario riprendere coscienza di essi. Dostoevskij ha lasciato questo lungo ed appassionante romanzo come un testamento spirituale, dove enumera le sue incertezze che, in fondo, sono quelle di ogni uomo. Si tratta di un pozzo a cui attingere, non tanto per dissetarsi quanto per avere ancora più sete. La mole del libro può spaventare, ma la scorrevolezza del testo e la predominanza del dialogo appassionato renderanno il tutto più leggero. Lo consiglio a chiunque non si imbarazza davanti ai grandi temi etici e desidera ricevere stimoli importanti.
Inviato il: 5/1/2008 9:49
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GARGANTUA E PANTAGRUELE --- di François Rabelais
Ora che ci penso, non ricordo cosa mi ha invogliato a leggere quest’opera. Forse è stato il Morgante, con le sue storie comiche di giganti, oppure il desiderio di sapere perché gli inglesi sono più affezionati al personaggio di Gargantua (l’aggettivo “gargantuan” è comunemente usato per definire qualcosa di sproporzionatamente grande) mentre gli italiani ricordano più suo figlio Pantagruele (si suole dire “pantagruelico” un banchetto abbondante). Non ho trovato questa risposta: in compenso ho apprezzato un’opera poliedrica, monumentale, raffinata ed enciclopedica. Gargantua e Pantagruele è una raccolta di cinque libri, pubblicati tra il 1534 e il 1562, divisi in mini capitoli di poche pagine, per un totale di 858. Il primo libro parla del gigante Gargantua, ed è la nuova stesura di un libercolo burlesco dal quale Rabelais aveva tratto ispirazione, per il suo primo libro di Pantagruele. Ottenuto un discreto successo, l’autore decise di riscrivere le avventure di Gargantua. Il primo volume è il più immediato, divertente e genuinamente comico; quelli successivi tendono ad una maggiore raffinatezza, sia intellettuale che lessicale, ma non sono per questo meno coinvolgenti e privi di pagine esilaranti. Per riassumere l’intreccio, si tratta in breve di un racconto favoloso, dove il mondo reale e quello fantastico si uniscono in un affresco multicolore. In questa ambientazione si muovono pochi personaggi principali, tra cui cito Gargantua, suo figlio Pantagruele, gli amici Panurge e Fra Giovanni Fracassatutto, altri che fungono da spalle intellettuali ed una miriade di personaggi allegorici, mitologici o reali, ciascuno dei quali fornisce a Rabelais lo spunto per una battuta sarcastica, per un’osservazione pungente o per una digressione scientifica, politica, filosofica, filologica o pedagogica. La storia vera e propria è in secondo piano e non è nulla di eccezionale, se si eccettuano alcune descrizioni davvero pittoresche Abbiamo di fronte un libro frivolo solo nell’aspetto. In realtà, è un quadro preciso e totale di un’epoca di contrasti come il Rinascimento, come lo è l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, che peraltro fu amico di Rabelais. L’autore ha compiuto un’indagine acutissima, fulminea e spregiudicata del suo tempo, per cui ogni tratto dei personaggi, anche una semplice inflessione di voce, rivela un carattere e il tipo di mondo da esso rappresentato. Troviamo perciò satire contro la Chiesa cattolica (siamo in epoca di Riforma protestante), le istituzioni pubbliche, i giuristi, gli usurai, i monaci, i frati e mille figure tipiche del Rinascimento, nascoste spesso da nomi fantasiosi ma perfettamente comprensibili per un uomo dell’epoca. Nell’ultima frase si cela la nota dolente: certe allusioni sono del tutto impossibili da cogliere per un lettore odierno, anche per il continuo ricorso a greco, latino e dialetto popolare (in italiano tradotto con dialetti italiani del tempo)ed a figure mitologiche e fantastiche ormai caduti nel dimenticatoio. La scarsità di note esplicative nella versione da me reperita ha acuito il problema. È un grande documento storico, frutto di una mente brillante e coltissima, che sa fornire un’immagine completa, fedele e critica di un’epoca, però troppo ricco di sottintesi per essere facilmente fruibile. Laddove non c’è comprensione del testo ma solo un muro di parole belle ma inarrivabili, confesso che ho avuto seri cali d’attenzione. D’altro canto, nelle parti in cui ho potuto afferrare la satira (in particolare quella della Chiesa, dei frati, degli avvocati e dei legulei) la soddisfazione provata è stata grande. Una lettura che non mi sento di consigliare, se non per alcune parti selezionate (i primi due libri e frammenti degli altri) a coloro che non sono grandi appassionati del Rinascimento e dei problemi di quell’epoca. Al contrario, chi ama le letture che documentano periodi storici in maniera allegorica e satirica, come la più seria Divina Commedia di Dante, troverà in Gargantua e Pantagruele un testo scorrevole, brillante e capace di entusiasmare.
Inviato il: 5/1/2008 9:51
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GERUSALEMME LIBERATA --- di Torquato Tasso
Tra le mie recenti letture, questo magnifico poema del 1575 si merita certamente una menzione particolare. L’ho preso in mano più che altro per desiderio di completezza, poiché si tratta di una delle opere a malapena accennate al liceo e che mi sembrava doveroso leggere, dopo tutte le altre. Mi aspettavo un poema ampolloso, ermetico, ridondante; ho trovato invece un’opera stupenda, a tratti perfino moderna, che mi ha affascinato come poche. La Gerusalemme liberata è il poema di vita di Torquato Tasso, dove si trovano riunite rime scritte in età adolescenziale (Tasso scrisse il primo libro “del Gierusalemme” a quindici anni) e spunti letterari frutto di un’intera vita di pensiero, rielaborazione ed influenze. Il risultato è un testo abbastanza breve, almeno in confronto ai poemi cavallereschi che ho già letto: 20 canti per una media di 90 stanze a canto, 575 pagine con i commenti (spesso superflui) dei curatori. Tuttavia il Tasso pare aver accolto la convinzione che non è la mole a fare grande un lavoro, ma la cura e la qualità dello stesso. Infatti, la prima e più evidente caratteristica della Gerusalemme liberata è l’assenza di ripetizioni, la peculiarità di ciascun personaggio, l’alto significato di ogni episodio nella vicenda narrata. Non è un coacervo di avventure improponibili che si susseguono in maniera casuale: possiede invece una sua precisa architettura narrativa e una decisa intenzione di apparire verosimile. In questo senso, il Tasso ha compiuto un enorme passo avanti rispetto agli autori di 50 anni prima (Ariosto, Boiardo, ecc...). Come si può immaginare, viene raccontata la storia della liberazione di Gerusalemme durante la prima crociata, da parte delle schiere cristiane guidate da Goffredo di Buglione. La vicenda lascia spazio alla descrizione di aspre battaglie ed assedi, dove si distinguono figure di eroi cristiani come Tancredi e Rinaldo, e di eroi pagani come Argante, Clorinda e Solimano. Gli scontri tra costoro non bastano però a risolvere la situazione, poiché entra in campo il soprannaturale. Tasso sostituisce alla mitologia pagana il soprannaturale cristiano, facendo intervenire angeli a sostegno dell’esercito crociato e demoni in favore di quello musulmano. A questo si unisce l’opera di diversi incantatori, come la pagana Armida, che con le sue malie sottrae dall’accampamento cristiano i campioni più valorosi, ritardando indefinitamente la conquista (imprigiona prima Tancredi e molti altri, poi lo stesso Rinaldo, l’eroe risolutore del poema). I toni usati nel racconto sono i più disparati. La Gerusalemme liberata è poema epico-eroico, nelle sequenze di battaglie e duelli descritte con estrema cura e realismo (Tasso mostra di essersi ben documentato su scherma e tattica militare); è poema tragico, poiché morte, dolore e disperazione sono descritti con estrema sensibilità e trasporto (sono sentimenti comuni a vincitori e vinti); è poema amoroso, di quell’amore che Tasso intende più come struggimento interiore, destinato a risolversi comunque nell’infelicità; è infine poema sacro, in cui si leggono accenti di accorata aspirazione alla purezza, di glorificazione del martirio e di lotta per il trionfo della vera fede. Non dimentichiamo che Tasso scrisse in epoca di Controriforma e che soffrì moltissimo la crisi, tanto che si costrinse a riscrivere la Liberata eliminando tutti i presunti errori dogmatici, ottenendo la pallida ombra del suo geniale poema che è nota come Gerusalemme conquistata. Secondo me, un libro bellissimo che unisce brevità ed estrema qualità poetica e narrativa. Naturalmente, se non si è abituati al testo in versi e non si intende fare un certo sforzo per affrontarlo, non nego che la lettura possa risultare ostica e pesante. Davvero un peccato, perché tra tutti i poemi che ho scartabellato negli ultimi mesi questo è il migliore, il più avvincente, curato e raffinato. Una vera perla dalla quale spolverare gli aloni di vecchiezza e disinteresse.
Inviato il: 5/1/2008 9:53
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IL GIORNO --- di Giuseppe Parini
Di questi tempi la mia lista di letture è piuttosto lunga e non accenna a diminuire. Un motivo potrebbe essere il continuo inserimento di brevi “extra” tra i titoli “obbligatori”. L’ultimo libro fuori programma che ho affrontato è il Giorno di Giuseppe Parini. Stavolta non si tratta di un’opera a lungo bramata e rinviata; è semplicemente un testo che mi è capitato tra le mani. Il capolavoro di Parini è stato pubblicato a puntate, che corrispondono alle attuali suddivisioni. Il Giorno è ripartito in quattro sezioni: il Mattino (1763), il Mezzogiorno (1765), il Vespro e la Notte (1801). È un poemetto breve, che a prima vista potrebbe sembrare di agile lettura; in effetti, conta poco meno di quattromila versi. Se la mole è un ottavo rispetto ai poemi cavallereschi che ho letto, la ricchezza, la complessità e la struttura del testo poetico lo rendono incredibilmente pieno. Si tratta del lavoro di una vita intera. Parini fu un dotto lombardo, che seppe accogliere le idee dell’Illuminismo e trasmetterle in modo efficace negli ambienti dell’alta società italiana. Persona di indubbie qualità intellettuali, ha lasciato un corpus di opere abbastanza ridotto, in cui la scarsa quantità è compensata dall’altissima qualità, frutto di un continuo sforzo di miglioramento, correzione e rimaneggiamento. L’argomento del poema è suggerito efficacemente dal titolo: è la giornata tipica di un “giovin signore” dell’aristocrazia milanese. Attraverso gli occhi del suo precettore, osserviamo i momenti salienti della vita quotidiana del nobile: nel Mattino ci sono presentati il risveglio e la toeletta; nel Mezzogiorno un pranzo sontuoso, i conseguenti discorsi e i giochi tra i convitati; nel Vespro le visite di cerimonia e la sfilata di cocchi per la città; infine, nella Notte un ricevimento in una casa patrizia. Oltre all’accuratissima descrizione delle operazioni tipiche e dell’etichetta, la narrazione è corredata da brevi racconti, atti a chiarire il pensiero dell’autore. L’occhio con cui Parini osserva e giudica la vita frivola dei nobili, dedita alle mollezze e alla vanità, è velato di sarcasmo. Il poeta evidenzia e deride con puntualità le contraddizioni (il cicisbeismo) e le ingiustizie presenti nella società aristocratica (è utile, a tal proposito, leggere il Dialogo sopra la nobiltà di Parini), tracciando un quadro chiarissimo della situazione, senza però scadere nella satira. Spesso, l’ironia è comunicata adottando un tono solenne per fatti risibili ed incresciosi (per citare l’episodio più celebre: e tu, vergine cuccia, idol placato da le vittime umane, isti superba). La sua critica è lucida, maturata dopo una lunga osservazione personale dei fatti raccontati; tuttavia, dal poema traspare non solo la perfetta conoscenza dell’etichetta e delle abitudini patrizie, ma anche un certo piacere dell’autore nel descrivere il bel mondo, con tutte le sue amenità, i suoi lussi e i suoi vezzi. Non restano grandi dubbi sulle idee progressiste ed egualitarie di Parini; è certo però che in vita fu molto attento a salvaguardare i propri interessi. Il Giorno possiede un testo complesso, assai ricercato nel lessico. In più, la lettura risulta oltremodo difficile per l’uso dei versi sciolti, operazione che porta all’abbondanza di cesure ed enjambement. Può quindi accadere che il lettore si disorienti, soprattutto nelle digressioni, dove di punto in bianco si abbandona il filo coerente della narrazione per accennare ad episodi mitici, di cui non è facile vedere subito le analogie con la realtà. Un testo poetico di gran pregio letterario e un importante documento storico, mi sento di consigliarlo a chi ama moltissimo la poesia. Nel suo essere in bilico tra prosa e versificazione e nel suo tentennare tra Illuminismo e Neoclassicismo, è un’opera cardine della letteratura italiana.
Inviato il: 5/1/2008 9:57
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LA GUARDIA BIANCA --- di Michail Bulgakov
La mia panoramica degli scrittori russi continua con questo romanzo, l’opera prima dell’autore del più celebre Il maestro e Margherita, che leggerò il prima possibile. Un po’ alla volta, mi rendo conto di aver spalancato uno scrigno letterario ricco di tesori inestimabili, che vale la pena di ammirare uno per uno. La guardia bianca è certamente un’opera minore, un esordio letterario uscito incompleto nel 1925, quindi ripubblicato per intero a fine Anni Sessanta, dopo la morte di Bulgakov. Non ci vuole molto a capire che è comunque il prodotto di un artista della penna, capace di colpire profondamente per modernità dello stile e vivacità delle immagini. Il libro racconta pochi momenti importanti dei mesi a cavallo tra 1918 e 1919, quando la città di Kiev visse in bilico tra invasori tedeschi, rivolte popolari e rivoluzione bolscevica. Gli abitanti trascorrevano un’esistenza precaria, nella ricerca disperata della normalità, mentre dalle campagne giungeva il suono dei cannoni e un mare di dicerie. I fatti sono presentati dal punto di vista della famiglia Turbin, costituita da due fratelli, Aleksej e Nikolka, e una sorella, Elena. Monarchici per vocazione, i Turbin servono sotto il vessillo dell’etmano, temporaneo governatore dell’Ucraina sostenuto dai tedeschi, mentre le campagne si sollevano in un moto popolare, guidato dal fantomatico leader Petljura. Ignari della fragilità della loro causa, i Turbin sono travolti assieme all’esercito dalle armate ribelli, che in breve conquistano Kiev nel sangue, grazie soprattutto al tradimento dei tedeschi e dell’etmano. La vittoria dura 47 giorni, fino all’arrivo dei bolscevichi. In questo contesto, i protagonisti vivono avventure e tragedie, in qualità di testimoni di un periodo turbolento della storia, che segna la sconfitta delle loro idee. La mia attenzione è stata attirata soprattutto dal tempo e dal luogo; si tratta, infatti, di uno dei mille momenti di instabilità politica e sociale della storia, quelli che sono facilmente dimenticati per lasciar posto alla retorica dei trionfi. Intanto il sangue per le strade di Kiev c’è stato, come in molti altri luoghi, causato dalla viltà e dall’opportunismo dei potenti, come sempre. Proprio per questo è importante che esistano opere a testimonianza delle epoche buie, che gettino un po’ di chiarezza non tanto su quello che è avvenuto nei palazzi e nelle riunioni militari, quanto sulle sofferenze ed incertezze della popolazione. Bulgakov ci ha lasciato un documento che ha la forma e la piacevolezza dell’arte. Nonostante la mia disaffezione per gli autori del Novecento, desiderosi di creare uno stile innovativo, spezzato e a volte eccessivamente convulso, ho apprezzato molto la fusione di brani carichi di tensione con spezzoni di pura poesia onirica. In una città in guerra c’è spazio per azione, pericolo e fughe mozzafiato, eppure Bulgakov riesce ad inserire riflessioni particolarissime, in perfetta soluzione di continuità. L’autore sceglie di riferire i sogni o le visioni dei personaggi, tracciando affreschi carichi di simbologie difficili da interpretare, ma esteticamente molto piacevoli. Un romanzo non lunghissimo (276 pagine), La guardia bianca è equamente suddiviso in parti scorrevoli, da leggere tutte d’un fiato, e brani elegiaci più complessi da seguire. Non me la sento di consigliarlo a chi ricerca un singolo romanzo russo da leggere; è maggiormente adatto al lettore che apprezza lo stile moderno ed è animato da un interesse precipuo per il Novecento.
Inviato il: 5/1/2008 10:01
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ILIADE --- di Omero (???)
Ah, i poemi epici! Come era diversa la sensibilità degli antichi! Leggere queste pagine sfogliate da milioni di europei e non nell’arco di 2500 anni induce a sospirare con nostalgia. Nostalgia per il valore in battaglia, per l’amor patrio, per la fedeltà agli amici, per la fede negli dei e negli ideali, per i forti sentimenti. Questo è l’Iliade, non un’epopea all’acqua di rose come quella presentata in film come “Troy”. Perché i punti di domanda vicino al nome di Omero? A parte il fatto che questo aedo cieco, vissuto secondo la tradizione nel Medioevo Ellenico (XI-VIII secolo a.C.), è più una figura mitica che un vero personaggio storico, leggendo questo suo poema salta subito all’occhio che non può essere opera di un solo autore. Ci sono molte incongruenze nella trama, che emergono scorrendo i libri; ad un linguista, leggendo il testo originale, appaiono certamente anche diversità stilistiche. Perciò mi sento di affermare che questo poema non è il frutto dell’inventiva di un solo autore: è parte del testamento di una civiltà, dalla quale abbiamo attinto molto. Di cosa parla l’Iliade? Di Achille e di Ettore? Solo in parte. Achille è presente solo in 8 libri su 24: più che il protagonista del poema è il deus ex machina, che interviene nel finale a concludere la vicenda. Il tema centrale dell’Iliade è la guerra, le alterne vicende del campo di battaglia, i suoi orrori e le prodezze degli eroi. In nessun altro libro ho trovato così tante scene di combattimento; certo, dopo un po’ sono ripetitive, anche se metafore e similitudini fantasiose contribuiscono a mantenere alto il tono e discreta l’attenzione. L’opinione comune degli interpreti è che il quadro degli avvenimenti bellici sia “sovraccarico”; io, invece, ho trovato interessante leggere come ogni eroe si acquista la propria gloria. Ai Greci piaceva che ciascun campione avesse il suo spazio, perché rappresentava un popolo acheo alla guerra di Troia; i suoi corregionali smaniavano di ascoltare le sue gesta. A scuola si tende a condensare la vicenda su Achille ed Ettore, e sull’ira di Achille con Agamennone, mentre figure di prim’ordine come Menelao, Aiace Telamonio, Odisseo, Diomede, Idomeneo, Enea, Paride, Glauco, Sarpedone, ecc... rimangono sullo sfondo o sono del tutto ignorate. Esistono eroi di serie A ed eroi di serie B; i secondi servono per consentire ai primi di distinguersi, sono cioè carne da macello. I primi sono fatti per ammazzare, i secondi per essere ammazzati; tra i primi muoiono solo Ettore, Patroclo e Sarpedone, tutti dopo essersi distinti in battaglia. Accanto alle preminenti scene belliche troviamo una serie di deliziosi quadretti ed interessanti diversivi. In particolare, vorrei segnalare le vicende divine, che sono lo specchio e la risoluzione di quelle umane; senza di esse, il poema non esiste e perde tutto il suo fascino. Patroclo, Ettore e lo stesso Achille sono destinati alla morte, ma sui tempi e sulle modalità gli dei hanno molto da discutere ed azzuffarsi. Bellissime anche le scene parlate, i lunghi e forbiti dialoghi, tra cui cito i più belli: l’incontro tra Diomede e Glauco (libro VI), Ettore e Andromaca (libro VI), l’interruzione dell’ira (libro XIX), l’incontro tra Achille ed Enea (libro XX), Priamo che riscatta il cadavere di Ettore (libro XXIV). Le scene visivamente più efficaci sono certamente quelle in cui gli dei compaiono in campo: tra tutte, il fiume Scamandro che cerca di sommergere Achille che ha riempito di cadaveri le sue acque (libro XXI); anche i giochi in onore di Patroclo sono un bel documento (libro XXIII). Un’opera somma per stile e dignità, tuttavia poco attuale. Questo è uno dei principali motivi per cui è davvero indispensabile riportare l’attenzione su di essa, in modo più coerente, fedele ed accorato di quanto è stato fatto recentemente.
Inviato il: 5/1/2008 10:18
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JULIETTE, OVVERO LE PROSPERITA' DEL VIZIO --- di Donatien Alphonse François de Sade
Recensire questo libro è un compito arduo. Anzi tutto, non ricorro a perifrasi per dire che quanto narrato in queste pagine è eminentemente pornografico, violento, efferato, insano e moralmente deviato... nella miglior tradizione del pensiero sadiano, da cui deriva il comportamento "sadico", per chi non conoscesse l'etimo di questa parola. Perché leggere un'opera del genere? Non nego che la curiosità iniziale aveva un qualcosa di morboso, interessato alle narrazioni di atti libidinosi che stanno a metà strada tra il tragico e il grottesco, essendo assolutamente esagerati. Questa curiosità è venuta presto meno, dato che il libro va ben oltre la semplice descrizione di accoppiamenti stravaganti tra individui. Forse per questo a molti interpreti di Sade va stretto il termine "pornografia". Juliette è un romanzo con una trama molto confusa; narra le vicende incredibili (e lo sono) di una donna, Juliette appunto, che intraprende la strada della perdizione, della negazione di tutti i valori morali, del piacere fisico e dell'egoismo più sfrenato. E' aiutata in questo cammino da una serie di personaggi che la istruiscono, che la imbottiscono di concetti filosofici pericolosissimi fino a farle ripudiare tutto, famiglia, religione, costumi sociali, virtù umane, castità, temperanza, remore, rispetto per "la natura". Le vicende di questa donna sono incredibili: assassini, stragi, avvelenamenti, profanazioni, libidinaggio estremo, perversioni crudeli e inumane, costantemente perseguite attraverso mille difficoltà, dalle quali la nostra eroina (se così si può chiamare) esce sempre vincitrice. Va detto che Sade ha scritto un altro romanzo, Justine, ovvero le disgrazie della virtù (o qualcosa del genere, non mi metterò certo a leggerlo), dove racconta le vicende parallele della sorella di Juliette, la cui vita virtuosa è punita con continui insuccessi e vessazioni. Il testo di Juliette è un continuo alternarsi di scene di sadismo e lunghe dissertazioni filosofiche. Quest'ultime hanno come scopo l'abbattimento dialettico di tutti i pregiudizi, di tutti i valori morali dell'epoca di Sade (secolo XVIII); viene proclamato un meccanicismo completo, l'assenza del soprannaturale e il classico concetto filosofico della natura "matrigna", che ci dota di pulsioni che non c'è alcun motivo di non soddisfare, anche a spese dell'altro, come fanno gli animali. In breve, per dire la mia, leggere quest'opera è stato interessante perché mi ha fatto entrare nella mente di una persona disturbata (Sade fu incarcerato più volte per perversione), che viveva in un’epoca in cui la nobiltà era in decadenza e la rivoluzione era prossima; il nobile iniziava a perdere il suo potere sul suddito, che era stanco di sottostare a tutti i suoi capricci, perché di capricci si parla. Le pulsioni irresistibili del "divin marchese" mi appaiono, infatti, insensate e poco credibili, come poco credibile è il suo racconto, che ha come unico scopo il gettare in faccia al pubblico tutto il disprezzo di Sade per la morale comune e per i pregiudizi che, secondo lui, limitano la libertà dell'uomo. Sta di fatto che il suo sistema filosofico è pieno di contraddizioni e non è nemmeno suscettibile di tale epiteto. Questo libro è abbastanza scorrevole ed interessante nella prima parte, dopo aver superato lo shock per quello che si sta leggendo (vi confesso che dopo le prime 100 pagine ero stomacato); diventa poi incredibilmente ripetitivo e sempre più surreale e confuso nelle argomentazioni. Diciamo che non è una buona cosa, poiché sfiora le 900 pagine e la trama è soggetta a improvvise variazioni che alla lunga danno fastidio. Inoltre, è impossibile affezionarsi ad un personaggio, perché prima o poi viene fatto uscire di scena, verticale od orizzontale. L'unica a salvarsi sempre e comunque è Juliette, che però è un personaggio passivo, che apprende e calcola le sue mosse, a volte con astuzia, a volte nella più completa follia. Però ha dalla sua parte l'autore, che le permette sempre di trionfare. Insomma, niente di eccezionale.
Inviato il: 5/1/2008 10:22
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